Viviamo in un’epoca in cui sembra quasi un imperativo controllare tutto: il tempo, le emozioni, le prestazioni, persino il modo in cui pensiamo e viviamo la nostra esperienza. Eppure, più tentiamo di dominare i flussi interiori, più essi ci sfuggono, rivelandoci un altro livello di realtà, nascosto ma pulsante, una mente “alle spalle” della mente stessa. È qui, in questo spazio invisibile ma fondamentale, che corrono i fili invisibili di un pensiero rivoluzionario, quello di Gregory Bateson con la sua ecologia della mente e quello della seconda cibernetica, la disciplina che mette l’osservatore dentro il sistema che osserva, trasformando il sapere in esperienza viva.
Nell’ipnosi costruttivista, di cui la seconda cibernetica è la base epistemologica, la relazione terapeutica non è un monologo in cui uno impone cambiamenti, ma un gioco dinamico, dove terapeuta e paziente co-creano senso insieme, osservando sé stessi mentre cambiano. Un gioco ricorsivo, come una partita nella quale il giocatore non è solo spettatore o artefice, ma è parte viva, componente e contesto al tempo stesso.
A questo punto entra in scena Jannik Sinner, giovane campione che incarna una forma di padronanza assoluta nel gioco del tennis. Osservandolo il dubbio svanisce: non è lui a “controllare” la partita, ma la partita che lo coinvolge in un dialogo incessante con corpo, mente, avversario e ambiente. È come se Sinner “suonasse, cantasse e ballasse” da solo, ma in realtà sta danzando con se stesso, in un ritmo che si genera all’interno di un sistema osservante e autoregolato.
Come diceva Heinz von Foerster, padre della seconda cibernetica, il sistema è il proprio osservatore, e l’atto di giocare — così come l’atto di vivere o di ipnotizzare — è un atto auto-generativo, in cui l’osservazione è parte del processo che si osserva.
Ma cosa succede quando questo dialogo interno si spezza tra coscienza e inconscio? Qui il pensiero si fa più complesso, e ci riporta a Jung e al suo concetto di inconscio collettivo: un campo condiviso, simbolico e invisibile che intreccia esperienze lontane e apparentemente separate. Maturana e Varela, invece, parlerebbero di autopoiesi: un processo di vita che si auto-produce e si conosce solo nel suo stesso fluire.
Forse l’inconscio vive in quella stessa logica autopoietica: un sistema che non ha bisogno di essere comandato, ma solo riconosciuto. E come ogni sistema vivente, comunica — anche se non conosce la nostra lingua. Comunica attraverso immagini, sensazioni, movimenti del corpo, sogni. È un sistema osservante, ricordandoci che anche il non detto è parte del discorso.
Da terapeuta, o semplicemente da essere umano, il compito non è “penetrare” l’inconscio, ma ascoltarne i segnali. L’ipnosi costruttivista, fondata su questa visione cibernetica, opera esattamente lì: non impone un cambiamento esterno, ma genera nuove organizzazioni di senso dentro la relazione che osserva sé stessa cambiare. È un atto poetico tanto quanto epistemologico: ogni induzione è una rete di significati che si ri-configura nel momento dell’incontro.
Forse la vita — come il tennis, come la relazione terapeutica — non è un campo di opposizioni, ma un luogo di ricorsività. Un continuo emergere di sé attraverso sé. Come scriveva Bateson, «la mente è la danza delle relazioni, non il danzatore». E nella danza, ciò che conta non è decidere ogni passo, ma lasciarsi danzare.
Nel punto in cui il conscio e l’inconscio si riconoscono reciprocamente, dove il terapeuta e il paziente si osservano co-creando senso, dove il giocatore diventa il gioco, lì si manifesta quella seconda cibernetica del vivere che non controlla, ma comprende. È lì che il sistema, finalmente, si lascia essere.
E in quel momento — per un istante — l’inconscio non fa più parte dell’ombra, ma del gioco stesso.
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